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Registi Teatrali Italiani: Maria Grazia Cipriani

Registi Teatrali Italiani: Maria Grazia Cipriani

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Il nome di Maria Grazia Cipriani è indissolubilmente legato al Teatro Del Carretto, compagnia nata a Lucca nel 1983 grazie al sodalizio con lo scenografo Graziano Gregori e con sede al Teatro del Giglio.

Il Teatro Del Carretto

Maria Grazie Cipriani parla attraverso le sue opere visionarie e il lungo percorso di ricerca espressiva che nasce dalla fusione del piano reale e di quello della meraviglia surreale.

Un viaggio interiore, unito al mondo onirico e messo insieme da un lungo training e lavoro teatrale.

Il suo repertorio vede così opere di sfondo mitologico e favolistico unirsi alla drammaturgia più amata e nota come quella shakespeariana.

Dal 1983 la Compagnia è cresciuta e si è guadagnata il suo posto sia sul territorio locale e nazionale, e anche come realtà matura del teatro di ricerca internazionale, andando oltre le barriere linguistiche e culturali.

Cipriani con il Teatro Del Carretto ha da sempre investito non solo nella produzione di opere, ma anche nella divulgazione dell’arte teatrale. E anche nella formazione di un pubblico critico mediante attività laboratoriali, workshop e progetti di audience development, portando la loro visione e poetica a un pubblico vasto e trasversale distribuito.

L’esordio con Biancaneve

Una foto dello spettacolo “Biancaneve” della compagnia Teatro del Carretto

Questa sua visione è già palesata nel primo spettacolo del 1983.

Si tratta di una Biancaneve dominata dalla crudeltà primitiva della fiaba, che si basa sulla versione originale dei fratelli Grimm costruita sul gusto concreto della materia e dell’artigianato.

È adattamento per teatro di figura della fiaba popolare, con protagonisti marionette di microtaglia, pupazzi di statura “infantile”, unite alle prestazioni a tutto corpo di un’attrice, uno spettacolo-modello che si distende in tutte le gamme della sensorialità.

Quello che già è evidente da questo primo spettacolo è che quello del Teatro Del Carretto è un artigianato rappresentativo fatto di componenti scenografiche, oggetti, corpi e moti, linee musicali, voci e rumori, luci, superfici e colori.

Nelle note di regia si legge:

«la Matrigna impersonata da una vera attrice ed una microscopica Biancaneve, i nani a grandezza naturale che arrivano a sorpresa dal fondo sala per diventare piccolissimi una volta entrati nella mutevole scatola teatrale che si apre come un magico armadio dell’immaginario svelando scomparti, celando trabocchetti, rinnovando continuamente e simultaneamente l’idea di palcoscenico, facendo apparire teste, paesaggi, personaggi veri, oggetti misteriosi di grandezza spropositata: il tessuto narrativo si fa gioco scenico, attraverso il contrasto di universi che nasce dal rapporto tra attori e creature in cartapesta, personaggi veri ed oggetti smisurati o lillipuziani, verità della materia e finzione del corpo, elementarità della parola e potenza dei brani del melodramma, rivelando sottilmente la sua natura di camera dell’inconscio».

La ricerca nella mitologia: l’Iliade

Nel 1988 Maria Grazia Cipriani si avvicina al mito con un’elegante, arcaica e ambigua Iliade, dando vita a uno spettacolo in grado di suscitare intensi stati emotivi.

Quel che viene messo in scena, a seguito di una profonda ricerca e un lungo lavoro, è la possibilità di percepire l’eco lontana della grande giostra eroica. Quella giostra che è stata ed è tutt’oggi portatrice del patrimonio mitico occidentale testimone di una umana tragicità.

La scelta registica per lo spazio scenico è quella di spogliarlo di ogni appiglio all’arredo teatrale: così l’incontro con l’ampio orizzonte omerico, mostrato spoglio di panorami o ambientazioni, diviene un terreno fertile all’irruzione di uomini e Dei.

Per l’attore, la scelta è di porlo in perpetuo bilico tra sovrumana forza e morta carne trascinata, caricandosi di corazze e scudi straripanti di vittime in bassorilievo.

Peculiare è anche la scelta che per questa messinscena viene fatta nei confronti degli Dei: concepiti come atroci bambini, esseri che conservano connotati somatici dell’infante, sono attori meccanici che avanzano in carri, mostrati mentre artigliano la schiena di un eroe. Un binomio ossimorico, a metà tra l’innocenza bambinesca e la terribile e inaccessibile potenza.

La magnificenza dell’epos omerico è raggiunta dai modi aulici della ricostruzione o dell’astrazione intellettuale unita a uno studio fisico e meccanico che mostra ogni aspetto della vicenda evidente e palpabile.

Al debutto negli anni ‘80, Vittorio Gassman commentò così lo spettacolo:

«Che felicità artistico-artigianale promana dall’Iliade del Teatro Del Carretto! L’assunzione del senso epico vi è risolta attraverso i materiali umili del lavoro eseguito a mano, di una fantasia metaforica che testimonia in ogni suo elemento la partecipazione globale di un’equipe, di una bottega post rinascimentale. Si sente, traspira dalla rappresentazione una stretta integrazione all’epos omerico, raggiunta non con i modi aulici della ricostruzione o dell’astrazione intellettuale ma con quelli, assai più persuasivi, di un procedimento analogico che, sintetizzando e fisicamente concretando in gesti ed oggetti espressivi l’alto senso poetico del testo, rende ogni aspetto della vicenda perspicuo e tangibile come si conviene ad un grande spettacolo popolare. Ecco: aristocratico e popolare, un’endiadi rara e qui perfettamente raggiunto»

Il Teatro Del Carretto e Shakespeare

Anche per il testamento teatrale del Bardo, la scelta è di privare lo spazio scenico di qualsiasi ornamento per dare spazio alla tragicommedia “La Tempesta” che ha come tema centrale l’impossibilità di rappresentare il sogno, elemento invece alla base della poetica della Compagnia.

Il Teatro del Carretto traduce quest’opera in un semi-musical bilingue sui toni del blues, in cui l’Isola è mostrata come “una scatola cinese, delineata da più sipari lacerati” – dalle note di regia- e i differenti personaggi sono interpretati da tre attori che passano da un ruolo all’altro; sarà proprio Prospero, prigioniero di un sogno o di un incubo, che cercherà di coinvolgere due attori indolenti a interpretare il complicato intreccio della vicenda.

Una scelta fortemente simbolica è messa in atto in questa rappresentazione in cui i vari dettagli sono metafore del vero senso dell’opera: l’impossibilità di rappresentare i sogni.

Una scena vuota dominata dal colore rosso e da “sipari lacerati”, in cui un gioco di luci ben realizzato segna lo spazio scenico e il procedere della storia insieme ai pochi elementi scenici: il pavimento coperto di fogli sparpagliati che volano, una piccola nave piena di candele, delle marionette rappresentanti i personaggi mancanti. Uno spettacolo che coinvolge lo spettatore a 360°, nel momento in cui l’odore della candela spenta riempie la platea. Quel che è molto evidente in questa messinscena, come in tutti i lavori della Compagnia, è il fondamentale training degli attori, punto centrale dell’interesse e del lavoro di Cipriani: lo studio del corpo, della voce, del respiro, del personaggio.

Le marionette di Pinocchio

Uno scatto dello spettacolo “Pinocchio”, attualmente in tournée.

Nelle note di regia, Maria Grazia Cipriani scrive:

«Ho pensato di fabbricarmi un bel burattino di legno. Il burattino deve ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali” Geppetto, misteriosamente custodendo nel suo corpo una scelta da adolescente, sogna di fabbricarsi un burattino meraviglioso e di girare con costui il mondo: viaggio da clown, da circo, avventuroso e illusionistico[…]Da quel progetto accarezzato dal genitore (ridotto a puro fantasma nel ventre della balena), passando attraverso il Carrozzone di Mangiafuoco (suoni festosi di grancassa, il giubilo del Gran Teatro, attori che sembrano marionette e marionette che sembrano attori, e la scena, straziante satira parodica della commedia popolare e del melodramma, in cui Pinocchio chiede a Mangiafuoco la grazia per “Arlecchino”)»

Dalle familiari pagine di Collodi, la regista dà vita a un Pinocchio nuovo, tormentato.

In un’eccellente messinscena dominata d’invenzione, trasformazione e tradimento, il Pinocchio di cui ognuno ha ricordi è visibile in pochi frammenti scomposti. La complessa morale collodiana viene scissa e ricomposta in un gioco visionario, con un protagonista drammaticamente ironico.

Il risultato è un sogno macchiato dall’angosciosa consapevolezza di un’infanzia impossibile.
Grazie alle innovazioni sceniche, viene data vita a un percorso affannato tra misteriosi sportelli aperti all’improvviso, richiusi poi con crudeli meccaniche di sopraffazione, continuando poi con porticine per precipitosi salti nella memoria, ritrovamenti di figure e personaggi.

Così la Cipriani dà vita a uno spettacolo che urta le coscienze, scava sino in fondo, facendo emergere tutto il male del mondo: male e crudeltà sono le chiavi di un allestimento che rilancia un’inedita interpretazione lontana dalle immagini consolatorie consolidate del romanzo.
Cipriani si è concentrata sul cuore cupo del racconto mostrando, spesso sul filo del melodramma, le disavventure del burattino che volle farsi uomo.

Quel che è evidente del teatro di Maria Grazia Cipriani è il grande valore dato alla ricerca e all’innovazione, al lavoro sul corpo e l’unione fra umano e meccanico volto alla rinascita dell’utopia.

Nelle sue opere umano e marionetta si incontrano, gli oggetti scenografici assumono un forte valore semantico, dando vita a opere uniche, inconfondibili e immortali.

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