Dopo aver parlato degli inizi della carriera del mitico Gigi Proietti, oggi vi parlerò di un’altra grandissima interprete, amatissima dagli italiani: Monica Vitti.
Il racconto della sua vita, della sua personalità e delle sue idee mi ha fatto innamorare ancora di più di questa splendida attrice, dotata di un talento puro per la recitazione.
La biografia “La dolce Vitti”
Per conoscere la persona che si cela dietro la grande artista, ho deciso di leggere il libro “La dolce Vitti” nato dalla dedizione e dall’amore per qusta brava interprete dei curatori d’arte Nevio De Pascalis, Marco Dionisi e Stefano Stefanutto Rosa.
“La dolce Vitti” è un compendio di testimonianze e splendide foto delll’unica Mattatrice italiana, che svela una Monica Vitti autoironica, forte ma anche insicura e a volte fragile.
Questo libro è una naturale appendice di una mostra dedicata a Monica Vitti e promossa da Istituto Luce Cinecittà nel 2018.
Una mostra multimediale, che purtroppo non ho avuto il piacere di visitare, ma che sicuramente ha messo in luce la personalità di un’interprete poliedrica, capace di passare da ruoli drammatici a ruoli brillanti con estrema naturalezza.
La famiglia di Maria Luisa Ceciarelli, in arte Monica Vitti
Monica Vitti, il cui vero nome è in realtà Maria Luisa Ceciarelli, nacque a Roma il 3 novembre 1931, nella tipica famiglia borghese dell’Italia degli anni trenta.
La madre, Adele Vittiglia, era una bolognese dedita alla famiglia. Per lei prima venivano i doveri familiari, poi eventualmente i piaceri della vita.
Il padre invece, Angelo Ceciarelli, era un romano la cui visione della vita era totalmente differente.
Ispettore del commercio estero, a causa del proprio lavoro, ha girato in lungo e largo l’Italia, portandosi sempre appresso la famiglia.
A differenza della moglie Adele, sapeva cogliere i piaceri della vita e li assaporava ogni qualvolta ne avesse l’occasione. Sapeva godersi la vita e, come ricorda la stessa Maria Luisa, gli “piacevano pazzamente le donne”.
Ultima di tre figli, i ricordi d’infanzia della grande attrice sono perlopiù positivi, anche se lo spettro della seconda guerra mondiale era vivo e pressante. Per quanto la famiglia Ceciarelli si spostasse spesso per il lavoro di Angelo, sembrava quasi che il conflitto mondiale li inseguisse in ogni dove.
Uno dei ricordi più vividi dell’attrice, infatti, riguarda proprio il periodo dei frequenti bombardamenti degli Alleati.
Si ricorda le fughe dalle bombe col cuore in gola nella cantina, assieme alla famiglia e ad altri disperati come loro.
Ricorda il terrore palpabile che si respirava in quei momenti, la tensione negli occhi degli adulti.
Ma ricorda anche che, proprio in quegli istanti, lei ragazzina insieme ai due fratelli maggiori, per stemperare la paura e la preoccupazione improvvisava dei piccoli spettacoli teatrali con le marionette.
“Stavo con i miei fratelli in Sicilia e c’erano i bombardamenti, e noi andavamo nello scantinato. Nello scantinato non si sapeva cosa fare, gente parlava della vita, gente piangeva e noi avevamo costruito un teatrino: avevamo messo una coperta, poi facevamo i pupazzi, disegnavamo gli occhi, il naso, la bocca e facevamo, parlavamo. Quello è stato il primo spettacolo che io ho fatto”.
“Da lì credo sia iniziata la voglia di attrarre l’attenzione, di raccontarmi. Di recitare”.
Intervista a Monica Vitti di Donatella Baglivo, Archivio Storico Luce – 1995
Il periodo in Sicilia
Probabilmente il periodo d’infanzia che Maria Luisa ricorda più volentieri sono gli otto anni passati in Sicilia, a Messina.
Abitava in una casa senza riscaldamento, assieme ai genitori, ai fratelli e svariati zii e cugini.
La loro non era propriamente una famiglia ma più una sorta di tribù scalmanata e rumorosa.
E fu proprio in quel periodo che all’attrice vennero affibbiati dei soprannomi che ancora ricorda con un sorriso nostalgico.
In famiglia c’era chi la chiamava “bruttisogni” perché la notte spesso era tormentata dagli incubi, chi invece la chiamava “smemoratella” perché una volta perse di vista sua mamma. Un’avventura che è ancora forte nella mente dell’attrice, segnata da un’angoscia tremenda e rasserenata solo in parte dal buon profumo di biscotti che un pasticcere decise di regalarle per calmarla un po’.
Ma il soprannome a cui però rimane più affezionata è senza dubbio “sette sottane” che fa da titolo alla sua prima autobiografia. Un nomignolo affibbiatole da alcuni suoi cugini perché era solita vestirsi con uno o due maglioni in più, d’inverno, essendo tanto freddolosa.
Ma forse il ricordo più bello di quel periodo è quello della magnifica terrazza affacciata sul mare, invasa dal profumo degli aranci, in cui solitamente giocava coi fratelli e i cugini.
Una famiglia tipicamente borghese, che le andava stretta.
Meno belli sono invece i ricordi dei doveri familiari che già da ragazzina era costretta a seguire dalla ferrea e severa educazione della mamma Adele.
A Maria Luisa non andava assolutamente a genio il fatto che lei dovesse già sottrarsi ai giochi e al divertimento per riassettare casa, mentre ai due fratelli maggiori era concessa maggior libertà, in quanto maschi.
Ma forse il ricordo d’infanzia che più le fa male, una volta divenuta adulta, è l’essersi resa conto dell’esistenza in famiglia di un clima poco roseo e sicuramente ipocrita.
L’essersi resa conto della presenza di verità non dette, messe su in difesa di una visione di una famiglia falsamente felice.
“Io sono vissuta in una casa dove non abitava la sincerità […] In casa mia veniva impartita un’educazione borghese, cioè l’educazione della menzogna. La risposta vera non era prevista, perché non c’era diritto alla domanda. Le risposte che si potevano avere riguardavano solo il clima e quello che si mangiava. Per il resto, ognuno si teneva le sue domande, come un abbigliamento intimo. Io, rischiando, ne facevo qualcuna ma la risposta era “non si devono fare domande, perché si corrono e si fanno correre molti rischi”. La verità era solo una eventualità. Un dominio di quelli più grandi”.
Sette sottane di Monica Vitti, Sperling&Kupfer – 1993
Il ritorno a Roma
Nel ’45 la famiglia Ceciarelli torna a Roma. Il clima familiare, che già mal sopportava quando era una bambina, per la Maria Luisa asolcescente inziava ad essere sempre più ostico e asfissiante.
Non riusciva a farsi andare bene il ruolo di madre e angelo del focolare che i genitori pensavano per lei e che le imponevano per il futuro. Lei non voleva essere una moglie e una brava madre. Lei voleva essere qualcun altro.
E in quel tumulto nero che è stato il periodo della sua adolescenza, Maria Luisa trovava un porto sicuro nel suo irrefrenabile desiderio di recitare, di essere un’altra. Di far ridere.
Il primissimo ruolo
La voglia di recitare era enorme, tanto che a quattordici anni e mezzo colse la palla al balzo.
Per caso assistette alle prove di uno spettacolo portato avanti da un gruppo di ragazzi più grandi in un piccolo teatro romano. I giovani attori stavano provando “La nemica” di Niccodemi e Monica chiese di poter fare parte del cast.
La protagonista, “la nemica”, era una donna di 50 anni e poi c’era una ragazza più giovane che avrei dovuto interpretare. Mi dissero: “Allora, tu leggi questa”. Io risposi: “Ma io ho letto il testo. Io questa qui non la faccio. Io faccio la nemica”.
Avevo la voce quasi come questa, ero già alta… li convinsi a farmi provare a fare un pezzo. Mentre recitavo vedevo i loro occhi brillare, li avevo commossi, li avevo presi. Allora proposi di invecchiarmi con una parrucca bianca, dei segni sul volto come rughe e feci la parte”.
Intervista a Monica Vitti di Donatella Baglivo, Archivio Storico Luce – 1995
E fu un vero e proprio successo! La sua interpretazione le valse una valanga di applausi e una recensione positiva nella rivista “La fiera letteraria”.
La famiglia, tuttavia, non accolse altrettanto bene la performance.
La paura e la preoccupazione più grandi di Adele e Angelo erano che la figlia ormai si lanciasse con tutta se stessa a tentare una carriera di attrice.
Un lavoro che entrambi non ritenevano tale e che sopratutto non credevano adatto ad una donna per bene. Una donna doveva avere, secondo il loro punto di vista, un unico scopo: essere madre.
E infatti mamma Adele era solita dirle: “la polvere di palcoscenico corrode anima e corpo”.
L’Ingresso di Monica Vitti all’Accademia Silvio D’Amico
Per Maria Luisa recitare, tuttavia, non era un vezzo d’adolescente. Era un desiderio vero.
Per lei recitare, vivere la vita di qualcun altro era un modo per sfuggire a quella condizione femminile che i genitori avevano pensato per lei.
A quella stessa condizione femminile che aveva davanti agli occhi ogni giorno, con sua madre che per la famiglia portava avanti una vita fatta di sacrifici, di rinunce e di frustrazioni.
Maria Luisa era uno spirito libero e una vita del genere sarebbe stata per lei troppo frustrante, sarebbe stata una gabbia.
“Un giorno, con le scarpe basse, timida, col solito maglione informe, doppio uso secondo se i bottoni siano davanti o sulla schiena, andando a scuola d’inglese vedo la Villa magica di Piazza della Croce Rossa.
Dal cancello vedo gesticolare, urlare, ridere, piangere. Vedo rifare, esagerando, la vita. E voglio far parte di quei pazzi felici rinchiusi nella villa. Fuori dalla quotidianità”.
E allora Maria Luisa, a diciotto anni, prese una di quelle decisioni che fanno da spartiacque.
Decise di provare ad entrare in quella prestigiosa Accademia d’arte drammatica famosa in tutta Italia, quella diretta dal celebre Silvio D’Amico.
Si preparò all’esame di ammissione con l’impegno e la dedizione di chi crede con tutto il cuore e l’anima in quello che fa: Checov, Courteline, Shakespeare, Feydeau, Goethe.
Ma per l’esaminatore, Silvio D’Amico in persona, Monica era brava ma ancora troppo immatura: “Riprovi il prossimo anno”.
E la nostra Maria Luisa non se lo fece ripetere due volte. L’impegno che mise nella preparazione dell’esame fu triplicato ed ottenne l’ammissione alla facoltosa e tanto agognata Accademia Silvio D’Amico.
Tuttavia per lei, gli ostacoli non erano ancora finiti.
Durante la visita medica di routine per gli ammessi all’Accademia non le venne concesso il nulla osta per un problema alle corde vocali.
Non poteva credere alle sue orecchie. Quel certificato che il dottore stava per consegnarle rappresentava molto più di un semplice responso medico.
Quel certificato significava piombare nuovamente nella monotona e grigia vita che le si prospettava davanti. Una vita da donna sposata, con figli, piena di sacifici. Una vita che assolutamente non voleva vivere.
Le crollò il mondo addosso e rifiutò di prendere in mano quel certificato medico. Minacciò di uccidersi e lo fece con una tale convinzione che il medico stracciò il certificato, buttandolo via in un cestino, dandole il suo benestare.
E così, nell’ottobre 1951 entrò ufficialmente nella prestigiosa Accademia Silvio D’Amico.
Era una ragazza alta, magra magra, semplice e senza trucco. Vestita quasi sempre di nero.
“Esistenzialista” così l’apostrofava sua mamma. “Anticonformista” invece si auto-definiva lei stessa.
Le incomprensioni con la famiglia
Per Monica Vitti l’essere ammessa all’Accademia di arte drammatica Silvio D’Amico è stata una conquista davvero sofferta.
Ma rappresentava solo un primo passo verso quella sua realizzazione personale, ancora incompresa dalla famiglia, e in particolar modo dalla mamma. E infatti, sebbene molto probabilmente sia stato solo un caso, poco tempo dopo essere riuscita ad essere ammessa all’Accademia, Monica ha dovuto suo malgrado non frequentare per qualche tempo le lezioni.
I genitori organizzarono un viaggio in Messico, per andare a trovare uno dei fratelli che laggiù aveva messo su famiglia.
Maria Luisa addirittura decise di informarsi da un avvocato se c’era la possibilità per lei di rimanere a Roma da sola, anche se minorenne.
“Piansi tre giorni prima della partenza per restare a Roma. Amavo l’Italia, nelle Americhe non volevo andare.
Ero molto rigorosa, volevo solo studiare e fare l’attrice tutta la vita, leggere, incontrare amici”.
Intervista a Monica Vitti di Donatella Baglivo, Archivio Storico Luce – 1995
Angelo e soprattutto Adele non riuscivano a comprendere la passione per la recitazione della figlia.
Ma la stessa attrice, ad ogni modo, non ne ha mai fatto loro una colpa. Semplicemente loro non potevano comprendere, perché avevano una visione piuttosto antiquata del concetto di famiglia e soprattutto del ruolo della donna.
Maria Luisa era troppo anticonformista, troppo moderna per loro.
Ma nonostante questo, sebbene non abbiano mai fatto niente per incoraggiare o aiutare la figlia nel suo percorso di attrice, allo stesso tempo nemmeno hanno provato ad ostacolarla troppo.
Il periodo in Accademia
la nostra Mattatrice, quindi, ha potuto frequentare l’Accademia senza particolari difficoltà da parte della famiglia.
Maria Luisa era una studentessa entusiasta, che frequentava le lezioni con molto impegno. Tuttavia, a causa del suo aspetto fisico, si è sempre sentita un po’ insicura.
Negli anni cinquanta, infatti, l’emblema della bellezza femminile era rappresentata da donne dal seno prospero, con una voce angelica e cinguettante.
Maria Luisa era tutto l’opposto: alta, magra, seno piccolo e voce roca.
” […] Ma era una frustrazione continua all’Accademia: col mio fisico, io così alta, così imponente, non potevo nemmeno pensare a Giulietta, a Ofelia. In compenso a dicannove anni ero già bella e pronta per interpretare Lady Macbeth”.
Quante idee se piango, di Gloria Satta – Il Messaggero 1 Settembre 1981
È proprio durante gli anni in Accademia che scopre di possedere una invidiabile verve comica.
È infatti il suo maestro Sergio Tofano che suggerisce ad una Maria Luisa incredula e ancora convinta che per far successo debba essere un’attrice tragica, di non limitarsi a puntare solo sulle sue capacità drammatiche.
Tofano, infatti, la aiutò asviluppare il suo innato talento comico.
“[..] c’era Sergio Tofano che ci dava lezioni di teatro brillante, e mi diceva: “tu sei il più grande talento comico che abbia mai visto!”
Io, disperata, mi sentivo umiliatissima… e lui, Tofano, ai miei pezzi, alle mie battute, rideva come un matto.
[…] Anche i miei amici ridevano da pazzi, dove arrivavo io era una risata continua. Così mi rassegnai a essere spiritosa e a interpretare teatro brillante”
Quante idee se piango, di Gloria Satta – Il Messaggero 1 Settembre 1981
Il diploma e il cambio del nome in Monica Vitti
Dopo tanta dedizione e tanto impegno arrivò per la nostra attrice l’agognato diploma all’Accademia, nel luglio 1953, con la messinscena di “Delitto e castigo”.
Un diploma preso a pieni voti che portò con sè anche il cambio del nome.
La stessa Maria Luisa sapeva che il suo nome vero non suonava particolarmente bene e non era poi così adatto per una carriera d’attrice.
Non a caso i suoi compagni d’Accademia erano soliti prenderla bonariamente in giro, storpiando appunto il suo cognome. La chiamavano “Cecio”, “Ciciarolli”, “Cicerelli”, “Ceciarella”.
Ma cambiare nome, o meglio assumere un nome d’arte non è una decisione così semplice come può apparire.
La nostra attrice era indecisa e non sapeva bene cosa fare. Fu il suo maestro e mentore Sergio Tofano a convincerla che Maria Luisa Ceciarelli non era assolutamente un nome adatto per una grande attrice.
Per cognome, come omaggio alla mamma Adele a cui era comunque molto legata nonostante il rapporto conflittuale, scelse Vitti. Vitti è infatti la prima parte del cognome di Adele, Vittiglia.
Per nome scelse invece Monica, come la protagonista di un libro che stava leggendo in quel momento. Le era infatti sempre piaciuto il nome Monica, la sua sonorità piena con quella emme iniziale.
Un’idea chiara in testa
Ma gli anni all’Accademia non le portarono solo il diploma e un nome d’arte nuovo di zecca.
L’Accademia la fece maturare, non solo come attrice ma anche come donna.
Nel 1953, a soli ventidue anni di età aveva già le idee chiare su che tipo di attrice sarebbe voluta diventare.
Essendo un’attrice dalla fisicità diversa rispetto all’ideale di bellezza di allora, decise di fare della sua “diversità” un aspetto da sfruttare.
Scelse di valorizzare i suoi “difetti”, di valorizzare la sua voce particolare, il suo essere tanto alta e poco formosa, il suo viso pieno di lentiggini.
Voleva essere un’attrice diversa. Diversa dai suoi colleghi e dalle sue colleghe.
Voleva essere vera, mentre recitava sul palco e davanti ad una cinepresa.
E forse fu proprio questa sua volontà ad essere la chiave del suo successo.

I primi passi di Monica Vitti nel Teatro
Uscita dall’accademia e dopo aver assunto un nome d’arte nuovo di zecca, fece i suoi primissimi passi d’attrice professionista.
Riuscì fin da subito a farsi notare dalla critica con le sue interpretazioni in “La Mandragola” di Machiavelli e in “L’Avaro” di Molière.
Poi, aiutata da Tofano,di volta in volta presentò al pubblico le sue doti d’attrice brillante, come ad esempio nella piece “Sei storie tutte da ridere” e nella commedia “I capricci di Marianna”.
Gli anni cinquanta, tuttavia, furono caratterizzati da svariate esperienze teatrali, destreggiandosi con assoluta disinvoltura tra ruoli comici e tragici.
Ancora il successo era lontano, tuttavia chi era del mestiere non dimenticava tanto facilmente la sua recitazione vera, non ostentata.
E mentre si faceva strada, non senza difficoltà, nel mondo del teatro, i rapporti con la famiglia e in particolar modo mamma Adele, erano tutt’altro che idilliaci.
La stessa Vitti ha raccontato, più volte, quanto la madre provasse vergogna nell’avere una figlia attrice.
Quando parlava dei tre figli, diceva “Ho un figlio avvocato, straordinario, che ha tre coppie di gemelli; ne ho un altro straordinario che fa il giornalista.” Poi, sottovoce, diceva “Ho una figlia attrice.”
Il Doppiaggio e le prime esperienze nel cinema
Accanto alle esperienze in teatro, intorno alla metà degli anni cinquanta Monica tentò timidamente anche di avviare la sua carriera nel mondo del cinema.
Il suo esordio fu in una commedia del 1955 “Ridere ridere ridere” affiancata da svariati divi come Walter Chiari e Ugo Tognazzi.
Contemporaneamente, nonostante la sua voce roca, non si lasciava sfuggire nemmeno qualche esperienza in sala di doppiaggio. Da ricordare il suo doppiaggio in “I soliti ignoti” di Monicelli e in “Il grido” di Antonioni.

“Antonioni mi ascoltava vivere”
E proprio l’incontro con Antonioni nel 1957 per il doppiaggio de “Il grido” fu uno snodo centrale nella sua carriera d’attrice. Carriera che ancora stentava a decollare.
Come detto, l’aspetto fisico di Monica non giocava a suo favore. I produttori e i registi a lei preferivano attrici procaci, con una voce soave e cinguettante.
Monica non era tutto questo. Eppure, per chi sapeva guardare oltre, Monica era una sorprendente scoperta.
E Michelangelo Antonioni era uno di quei registi che sapeva guardare oltre.
Quando Monica conobbe Michelangelo, era fidanzata ad un architetto. Qualcuno dice che i due avrebbero dovuto sposarsi.
Ma l’incontro con Antonioni fu sconvolgente per la Vitti. E non solo per la sua carriera.
Per Antonioni, la Vitti lasciò l’architetto e praticamente abbandonò il teatro, che ancora poteva donarle tanto.
E iniziò con lui un sodalizio artistico che le aprì la strada al successo!
La tetralogia esistenziale di Antonioni
Il regista ferrarese fece di Monica Vitti la sua musa.
Cucì su di lei quattro grandi film dedicati alla fragilità della vita e dei sentimenti: “L’Avventura” (1960), “La Notte” (1961), “L’Eclisse” (1962), “Deserto rosso” (1964).
Nella famosa Tetralogia antoniana protagonista è sempre una donna moderna e borghese, inquieta e nevrotica. Una donna alla ricerca di un amore impossibile o di un suo posto nel mondo.
Ruoli che la Vitti sente suoi già alla prima lettura del copione, riconoscendosi fin troppo bene in quelle donne.
E infatti per Monica rivedere uno dei film della tetralogia di Antonioni è come rivedere la sua vita.
“L’Avventura”: Monica Vitti si presenta al grande pubblico
Il primo film della celebre Teatrologia esistenziale è “L’Avventura” del 1960.
All’origine di questa pellicola c’è una piccola avventura vissuta da Monica in persona.
In occasione di una gita che Monica e Michelangelo fecero con una barca di ricchi amici, la nostra Vitti si perse durante una sosta in una piccola isola.
Monica racconta che riuscì a ritrovare la strada del ritorno con fatica, ma quell’episodio fu illuminante per il regista ferrarse e quando Monica si scusò per il disagio Michelangelo prontamente rispose “No no, mi è venuta una bella idea”.
Da quell’episodio il regista creò la sceneggiatura di “L’Avventura” dove Vitti è Claudia, amica di Anna che durante una gita su un’isola si perde, dopo aver litigato con Sandro, il suo compagno.
Claudia quindi inizia a cercare l’amica, assieme a Sandro. Nel corso del film però i due partecipano sempre meno attivamente alla ricerca, presi dal nascere improvviso dell’attrazione che li vede coinvolti.
Finiranno per credere che l’improvvisa scomparsa di Anna sia provvidenziale, inziando così una relazione che però non è destinata a durare.
I primi riconoscimenti e premi per Monica
Il film partecipò in concorso al Festival di Cannes e alla sua prima proiezione ebbe una vita difficile.
Poco dopo l’inizio il film venne aspramente criticato e fischiato anche se col procedere della proiezione si fecero sentire applausi e apprezzamenti.
Michelangelo e Monica, tuttavia, erano sicuri che la proiezione fosse stata un vero e proprio flop…
Ma poi arrivarono le dichiarazioni e i commenti entusiastici di alcuni giornalisti, spettatori e importanti personalità artistiche. E infine il riconoscimento più grande: il premio speciale della giuria di Cannes.
In patria, invece, la nostra Monica riceverà per la sua perfomance il Globo d’oro.
Che fortuna cominciare una carriera così, e che bello incontrare un uomo come Michelangelo. In Accademia Tofano aveva avuto fiducia in me e questo mi aveva aiutato, ma Michele mi ha subito stimato, ascoltato, mi ha permesso di scrivere le mie prime battute di sceneggiatura, rispettato come individuo, mi ha dato fiducia. E si sa, se ti danno fiducia puoi fare iracoli.
Monica Vitti di Laura Delli Colli, Gremese Editore – 1987
Monica Vitti si fa quindi conoscere al grande pubblico e il Globo d’oro fu solo il primo dei tanti premi che si susseguiranno, tra cui vale la pena ricordare il Nastro d’argento come Miglior attrice non protagonista per “La Notte”.
Da attrice drammatica a attrice comica
Se il sodalizio con Antonioni ha avuto il grandissimo pregio di averla fatta conoscere al grande pubblico, ha però avuto anche il grosso difetto di aver incasellato Monica come attrice drammatica.
Ormai era conosciuta da tutti come la “diva dell’alienazione“.
Un’etichetta che le andava stretta e che cercò di scrollarsi di dosso dopo aver chiuso il suo rapporto con Antonioni, in seguito all’uscita del film “Deserto rosso”.
L’aver partecipato alla tetralogia di Antonioni, infatti, non solo la fece venire alla ribalta come attrice drammatica agli occhi del pubblico, ma anche agli occhi degli addetti ai lavori.
Per questo motivo cercò di muoversi in terreni differenti dalla drammaticità, cimentandosi sempre più spesso in film comici con ruoli ironici e brillanti. Ruoli che, tuttavia, già ai tempi della collaborazione con Michelangelo aveva affrontato, sebbene senza troppa convinzione.
Ma fu proprio la chiusura del rapporto lavorativo e sentimentale con Antonioni ad averle dato la spinta:
Sono sempre stata angosciata dall’idea di dovermi trovare al centro di un film “alla Antonioni” senza Antonioni, di imitazioni insomma. È anche questa la ragione per la quale, chiuso il mio rapporto con Michelangelo, ho scelto di ricominciare da zero, di muovermi su un terreno completamente diverso dal suo cinema.
Un’attrice allo specchio, di Felice Laudadio – l’Unità 13 novembre 1978
Monica Vitti quindi si butta in questa nuova avventura con determinazione, ma anche entusiasmo.
Il primo film comico a cui partecipò, dopo “Deserto rosso” fu la commedia grottesca “Il disco volante” di Tinto Brass dove interpretò la coniuge del sindaco di un paesino bigotto e perbenista del Veneto alle prese con una invasione aliena.
Un’esperienza che la Viotti visse come un gioco folle e divertente.
Poi partecipò a due film ad episodi, “Le Bambole” e “Le Fate” in cui le trame erano state costruite proprio sui personaggi bizzarri e sopra le righe della Vitti.
Queste tre esperienze furono perciò una sorta di preludio al primo lungometraggio comico che la vide protagonista: “Fai in fretta ad uccidermi… ho freddo” del 1960. In questa pellicola Monica interpretò la parte di Giovanna che, assieme al compagno Franco porta avanti truffe e imbrogli in crociere e hotel di lusso.
A proposito di Monica Vitti, il regista Francesco Maselli affermò:
Fu una straordinaria collaboratrice e coautrice del film. C’erano alcune scene che si svolgevano in un transatlantico in viaggio e ricorderò sempre, insieme ai componenti di tutta la nostra troupe, le battute e i sarcasmi ineffabili di Monica verso lo stile di vita che veniva offerto dallarmatore ai passeggeri di prima classe!
Seguirono altre due pellicole brillanti, nelle quali Monica Vitti dette prova del suo talento comico: “La cintura di castità” e “Ti ho sposato per allegria” che le aprirono davanti le porte alla comicità.
Tuttavia, ancora Monica era ricordata soprattutto per le sue perfomance attoriali nei film drammatici di Antonioni. Ma il grande successo comico non tardò ad arrivare…

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La consacrazione di Monica Vitti: “La ragazza con la pistola”
Il grande successo arrivò infatti un anno dopo l’esperienza lavorativa nella pellicola di Salce, “Ti ho sposato per allegria”.
Mario Monicelli la volle per il suo “La ragazza con la pistola” del 1968. Una divertente commedia di costume incentrata sull’emancipazione femminile.
Qui la Vitti interpretò l’indimenticabile Assunta, giovane ragazza siciliana sedotta e abbandonata che segue fino a Londra l’amante Vincenzo per punirlo dell’onore perduto. Un viaggio di inaspettata crescita, che le permetterà di conoscere nuove realtà e di trasformarsi in una donna emancipata e indipendente.
La genesi del film, sebbene fosse stata chiara fin da subito nella testa di Monicelli, incontrò vari problemi e reticenze soprattutto da parte della produzione.
Il regista romano aveva in mente fin da subito Monica come protagonista, tuttavia il produttore del film vedeva la Vitti completamente inadatta, etichettandola ancora come attrice drammatica.
Ma la caparbietà di Monicelli ebbe la meglio e, nonostante le voci di corridoio che facevano della Vitti un’attrice difficile da gestire, sul set tra regista e interprete si instaurò fin da subito un forte legame.
Con il film di Monicelli, Monica si procurò svariati premi: il David di Donatello come Miglior attrice protagonista, un altro Globo d’oro, la Grolla d’oro, un altro Nastro d’argento e il premio del Festival di San Sebastian.
“La ragazza con la pistola” la consacrò come attrice brilante e raffinata, dimostrando finalmente ai critici e al pubblico di saper essere un’ottima attrice comica oltre che drammatica.
E il commento caustico e ironico di Monica fu:
Da quando ho smesso di fare film drammatici, mi prendono sul serio”
Cosa possiamo imparare dalla storia di Monica Vitti?
Monica Vitti aveva un talento naturale per la recitazione. La sua storia ce lo dice a chiare lettere.
Tuttavia Monica Vitti non ha avuto vita facile. Lungo il suo percorso ha incontrato svariate difficoltà, a partire dal mancato appoggio da parte della famiglia e di sua madre in particolar modo.
Il mancato riconoscimento e la mancata approvazione da parte di sua madre e di suo padre, hanno probabilmente reso tutto molto più difficile per Monica, non solo a livello lavorativo.
E non è perciò casuale il fatto che la Vitti si sentisse sempre terribilmente inquieta.
Dapprima da bambina e poi da ragazza Monica è stata sempre alla ricerca del suo posto nel mondo.
Nel suo caso, la recitazione è stata una vera e propria ancora di salvezza.
Per Monica, Recitare quindi non è mai stato un lavoro e nemmeno solo una passione.
Per Monica Recitare era una ragione di vita. Era il suo posto nel mondo
E se c’è una cosa che la storia di Monica Vitti ci insegna è proprio questa: seguire con tenacia i propri sogni e obiettivi, senza lascisarsi spaventare dalle avversità e dalle sconfitte.