Si sente dire spesso che il teatro oggi fa fatica ad attirare il pubblico perché è vissuto come qualcosa di troppo impegnativo e a volte anche noioso, oppure del tutto incomprensibile. Eppure negli ultimi anni si è affermato sempre di più un teatro di tipo multidisciplinare.
Un teatro in cui recitazione, musica, danza, performance, arte figurativa e fumetto dialogano insieme per offrire allo spettatore un’esperienza sempre più coinvolgente e immersiva. Ne parliamo oggi con un’artista che ha fatto della multidisciplinarietà la sua missione, Irene Carossia.
Irene Carossia, artista poliedrica
Irene Carossia, artista poliedrica e con una lunga carriera, è stata mezzosoprano allieva del maestro Vincenzo Manno, coreografa al Regio di Parma, al Bellini di Catania e alla Deutsche Oper di Berlino. Carossia è anche specializzata in danza contemporanea e neoclassica con il metodo Balanchine ed è drammaturga. A soli 18 anni esordisce con l’opera Frammenti, dedicata all’evoluzione della figura femminile nella storia della danza.
Fondatrice della compagnia di teatro danza Miraggi a Milano e Quarta Dimensione a Bologna, è vincitrice di due bandi, che in provincia di Lecco, dal 2016 al 2022 le hanno permesso di fondare e dirigere il Centro di ricerca e sperimentazione teatrale a Villa Mariani di Casatenovo. Si è poi trasferita a Lissone, dove tuttora è direttrice artistica del Crf_Carossia (Centro di Ricerca e Formazione). Qui prosegue il suo percorso artistico connotato, appunto, dalla multidisciplinarietà, di cui ci parla in questa intervista.
Quali sono i principi e il metodo che guidano la sua sperimentazione?
“Ho fondato il Centro di ricerca dopo aver vinto due bandi del Comune di Casatenovo e appena arrivata ho trasformato lo spazio originale, un auditorium, in un teatro vero e proprio. Poi ho creato uno spazio espositivo dove ogni mese venivano ospitate mostre mirate, perché si potesse coordinare l’attività teatrale con quella espositiva dando al pubblico la possibilità di compiere un vero e proprio viaggio fisico in cui l’elemento trainante era lo spettacolo teatrale.
L’evento, parola oggi molto inflazionata, lo chiamerei piuttosto percorso, comprendeva, ad esempio, una visita guidata alla mostra per poi assistere allo spettacolo. La musica, essendo io cantante lirica e pianista, è un altro elemento cardine dei nostri spettacoli.
Ho scelto di trasformare il parco della Villa in un Parco delle Sculture, museo di arte contemporanea a cielo aperto, dove le piante di varie specie costituivano non solo un elemento ornamentale ma diventavano parte dell’esperienza immersiva, in cui la natura dialogava con l’arte: la mano dell’uomo incontrava quella della natura, creando così un percorso sensoriale.
Il rischio dell’arte divisa in settori
L’arte in sé è un mosaico composto di tanti tasselli, dal teatro alla letteratura, dalla musica all’arte figurativa, dalla danza al canto.
Ciò che la uccide è soprattutto la settorialità e questo in Italia è un grosso problema.
Il rischio è che ognuno si chiuda nella sua, d’arte, senza mai allargare oltre lo sguardo. È un male, perché l’arte trascina tutto ciò che è espressione del talento e della sensibilità umana, in modo tale che si possano restituire al pubblico più prospettive dell’eterno fluire, dell’eterno movimento che è la vita.
Oggi serve un risveglio dell’arte nel suo insieme e in tutte le sue declinazioni ed è importante anche per gli artisti, per la loro crescita e per la formazione, approcciarsi al teatro-danza, alla scrittura, al canto, per acquisire maggiore consapevolezza e arrivare più in profondità all’anima delle persone.
La multidisciplinarietà non significa saper fare un po’ di tutto “pressappoco” come diceva Toscanini, ma sapersi relazionare con artisti di altre discipline, scoprendo costantemente nuovi spazi di noi stessi.
“Lo scopo di uno spettacolo è incuriosire il pubblico e offrirgli più chiavi di lettura della realtà”
La nostra finalità è riuscire a far scaturire nel pubblico curiosità e desiderio di saperne di più, non necessariamente su ciò che ha visto e sentito in quella occasione, ma un desiderio di conoscenza che lo porti a non vivere passivamente di fronte alla realtà.
Il compito del teatro, infatti, è quello di aprire allo spettatore le porte del Palazzo di Barbablù, una volta consegnategli le chiavi ed entrato, vedrà altre porte e sceglierà lui stesso quali decidere di aprire.
Chi viene a teatro deve essere rispettato, per questo si dovrebbero sempre offrire più chiavi di lettura per decifrare lo spettacolo e la realtà stessa.
Il trasferimento a Lissone e l’ipotesi di dialogare anche col cinema
Tornando al Centro di Casatenovo, ho lavorato per sei anni, dopodiché mi sono trasferita a Lissone, in uno spazio molto più piccolo.
Il teatro qui, infatti, è una bomboniera, molto elegante, con un cromatismo bianco e blu, di soli 40 posti, mentre ho voluto privilegiare lo spazio del palcoscenico. Di fronte al palcoscenico si apre lo spazio espositivo che è sempre in relazione con quanto viene raccontato in scena.
Il museo è inoltre uno spazio letterario, che vive una sua stagione attraverso gli incontri tra attori e pubblico, le presentazioni di libri e gli approfondimenti.
Presto apriremo altri spazi di dialogo e riflessione anche sul cinema che, se sta attraversando una crisi epocale per il calo di spettatori nelle sale, certamente vede anche una rinascita sul piano creativo, per quel che riguarda sia i registi che gli attori”.

“La società di oggi non educa all’ascolto, per questo la gente non va a teatro“
Anche per il teatro si parla da molto tempo di crisi, soprattutto perché è cambiato il pubblico
“La gente fa fatica a venire a teatro perché c’è un alfabetismo del sentire, alimentato da una società che non educa all’ascolto e all’attenzione all’altro.
La soglia di concentrazione del pubblico è molto bassa, inutile girarci intorno, per questo è importante che chi oggi decide di venire a teatro venga premiato con una comunicazione efficace ed emotivamente coinvolgente.
Quando i tempi sono bui, più o meno tutti siamo tentati di autocelebrarci e rimpiangere i tempi migliori, ma non si deve fare, mai. Il rischio è quello di lavorare a testa bassa senza accorgersi che siamo di fronte ad una società e ad un pubblico diverso rispetto a qualche decennio fa.
Ogni artista è chiamato a decifrare il proprio tempo, è inutile ancorarsi al passato. Anche noi siamo cambiati e lo stesso testo drammaturgico oggi deve muoversi su un ritmo diverso.
Certo, occorre equilibrio tra il massimo della professionalità e la capacità di vivere appieno nel proprio tempo. Il teatro in particolare è chiamato a dare al pubblico l’opportunità di riflettere in una società che in questa fase storica sta conoscendo un’involuzione, disinteressandosi ad investire sulla cultura”.
… “ma il linguaggio del corpo è immediato e il canto è uno strumento di comunicazione potente”
Come si potrebbe raggiungere il pubblico analfabeta dal punto di vista emotivo?
“Sarebbe importante ritornare ad un teatro in cui la corporeità abbia un ruolo centrale perché il linguaggio del corpo è immediato, poi il canto e la parola cantata hanno un potere immenso come strumento di comunicazione. Certo, non si possono proporre in tutte le tipologie di spettacolo, allora si può ricorrere all’immagine, alla tecnologia. In questo la multidisciplinarietà sta giocando un ruolo molto importante”.
Sì alla tecnologia se non toglie emozione
Il suo rapporto con la dimensione del metaverso
“In realtà il teatro offre da sempre la dimensione del metaverso; appartiene, per sua natura, agli universi paralleli. La sperimentazione a cui fa riferimento è in essere da ormai 30 anni.
La tecnologia è un grande supporto se non va a sostituire lo spazio dell’impatto umano del teatro, non deve togliere potenza alla struttura dello spettacolo teatrale, perché il teatro è un rito della verità e della bellezza che viene condivisa. Ciò che sottrae emozione, lo guardo con sospetto.
Ovviamente c’è anche un discorso di costi. Gli investimenti sul teatro sono scarsi in Italia e credo che prima di investire sulle grandi innovazioni tecnologiche si debba pensare alla sopravvivenza stessa dei teatri.
La tecnologia, insomma, deve essere un valore aggiunto”.
Omaggio alle donne che hanno cambiato il teatro tra ‘800 e ‘900
Veniamo all’impegno civile a sostegno delle donne. Lei è anche docente di Storia delle donne e ha portato in scena gli spettacoli Riverberi e Volti e parole di donne
“Sì, la Storia delle donne è cardine della mia scrittura e della mia ricerca.
Riverberi parla delle donne che hanno traghettato il teatro dall’800 al ‘900: Adelaide Ristori, Eleonora Duse, Sarah Bernhardt, Isadora Duncan, Ruth St. Denis e Pina Bausch.
In Volti e parole di donne, do voce, seguendo l’ordine alfabetico delle parole della vita, a figure femminili che sono state attrici, poetesse, ribelli, ma anche donne comuni, la cui identità è stata repressa e la voce messa a tacere.
Anche per la parte espositiva, però, spesso prediligo autrici femminili, per portare visibilità a chi in passato non ne ha mai avuta molta in questo ambito.
Dal momento in cui le antiche società matrifocali sono state, con violenza, soppiantate da società patriarcali e fallocratiche, tutti i contributi delle donne alla cultura e alle arti sono state fortemente penalizzate. L’epoca attuale, sta cercando, tra molte difficoltà, di recuperare le forti identità e potenzialità del femminino”.
Il compito del regista non è dirigere
Veniamo alla regia: che posto occupa nella scala dei tanti ruoli che ricopre?
“Se non praticassi la regia non potrei portare in scena i lavori che scrivo. Per quanto riguarda la drammaturgia di repertorio, invece, prediligo autori come Ibsen e Bernard Shaw, per il loro sguardo sulla questione femminile, Čhecov e Strindberg.
Il lavoro del regista io lo vivo come quello del direttore d’orchestra. Penso che il suo compito sia quello di avere la mano abile ma mai pesante, aiutando l’artista a costruire la sua relazione con il personaggio.
Non è fatto per dirigere nel senso letterale del termine. Deve portare l’attore o il danzatore a lasciarsi abitare dal personaggio che interpreta, perché il nostro lavoro non si costruisce imparando a memoria le battute, che sono del personaggio, ed è a lui che dobbiamo fare spazio.
Il teatro non è finzione scenica, ma sempre verità umana condivisa”.
L’arte è pazzia, omaggio a Puccini
Parliamo infine dell’opera che sta portando in scena L’arte è pazzia: Puccini, da lei scritto e diretto
“È uno spettacolo di prosa con una parte musicale necessariamente importante, centrato sul monologo di Puccini che scrive una lettera a se stesso per raccontare la propria verità.
Da qui nasce una riflessione sulle sue scelte teatrali e musicali che si sovrappongono alla sua stessa esistenza, poiché non si può scrivere, prosa, musica o teatro che non parli anche di noi stessi. Eccolo allora ascoltare le parole della moglie Elvira che gli ricorda di aver vissuto un universo parallelo animato dalle tante donne alle quali ha affidato parti di se stesso, raccontate poi nelle sue romanze. L’ambientazione che è la sua casa, rappresenta in realtà la sua interiorità, la sua anima complessa”.
Cover: Irene Carossia – photocredit Gianni Radaelli