Giunta al 2° posto al Concorso Nazionale Wanda Capodaglio 2022, l’attrice ne racconta aspetti e preparazione
Il monologo, per chi aspiri a diventare attore, rappresenta un passo decisivo nel proprio percorso artistico e le opere letterarie e teatrali ne offrono di indimenticabili.
L’intensità e la bravura col quale un attore/attrice sa stare in scena e interpretarlo rappresenta un obiettivo anche per le scuole di recitazione.
Ma come ci si prepara a recitare un monologo, nello specifico? In base a quali criteri si sceglie un monologo invece di un altro? Aiuta un’eventuale somiglianza fisica con un determinato personaggio? E quando non si può portare in scena l’intero monologo ma solo uno spezzone di pochi minuti, che cosa può aiutare nella selezione del testo?
Abbiamo intervistato l’attrice Asia Galeotti, attrice teatrale cinematografica, che proprio il 10 giugno scorso, al Teatro Wanda Capodaglio di Castelfranco di Sopra (Arezzo) si è aggiudicata il 2° posto al Concorso Nazionale, considerato l’Oscar delle Scuole di Teatro italiane, con il monologo L’Attesa – Anita Garibaldi, morte e vita di una Regina scritto da Valeria Magrini e diretto da Emanuele Montagna della Scuola di Teatro Colli di Bologna, basata sul Metodo Stanislavskij. La Giuria era composta da Leopoldo Mastelloni, Sandra Milo e Nadia Rinaldi. (nella foto sotto)

Come ti sei preparata al monologo su Anita con la quale sei stata ammessa al concorso Wanda Capodaglio?
“Non è stato facile ridurre un monologo di 45 minuti a soli 5-6… Mi sono occupata interamente del taglio, di cosa escludere e cosa mantenere.
E sinceramente mi rendo conto che per comprendere davvero la storia di Anita Garibaldi occorrerebbe assistere al monologo nella sua interezza.
Per valutare un attore invece possono bastare pochi minuti, anche tramite le sue scelte. Così ho recuperato gli oggetti di Anita che portavo con me sul palcoscenico: bastone, saracca, pistola, bandiera italiana, ecc. Quelli che io vedo come le sue prese di forza, i punti di riferimento della (e nella) sua storia.
Ci ho messo tutta la grinta possibile, quella del Risorgimento e dell’Amore che le parole del monologo di Valeria Magrini mi hanno trasmesso dal primo momento che lessi il testo”.
Cosa pensi del personaggio di Anita, che cosa in particolare ti ha affascinata di più di lei?
“Il carattere combattivo. Aver dedicato la sua giovinezza ad un ideale. La Libertà.
È vero, oggi abbiamo una considerazione diversa di questi valori perché si sono evoluti nel tempo in base al contesto storico. Per Anita significava libertà di un Paese, non sottostare ad un potere, un senso di indipendenza partita già con gli ideali dello zio e continuata poi con Garibaldi.
È stato un arricchimento poter rielaborare e comprendere questi concetti da una prospettiva storica diversa. A noi sembrano ideali lontani, ma non dobbiamo dimenticare che ci hanno portato fino a qui.
E poi mi ha colpito il legame indissolubile con il suo Giuseppe e come lui la considerasse non solo la donna della sua vita, ma a pari merito un soldato, pronta a battersi e a incoraggiare tutti gli altri”.
Il fatto di non assomigliare fisicamente ad un personaggio che si deve interpretare può essere penalizzante?
Mi riferisco ad esempio al fatto che Anita fosse mora, con capelli scuri e sanguigna e tu bionda, con pelle e occhi chiari.
“Inizialmente è stato il primo problema che mi sono posta anche io. Mi sentivo lontana dalla sua fisicità. Ma non doveva né deve diventare penalizzante perché la magia del Teatro (e anche del cinema in taluni casi) è proprio la trasformazione, lo studio del personaggio. Non era la somiglianza che dovevo portare sul palco, ma un Sentimento (e con la S maiuscola).
Farmi mora con la pelle olivastra mi ha tranquillizzata in un primo momento, ma poi ho superato questo gap estetico e, come ho fatto al Premio Capodaglio, sono andata totalmente con le mie sembianze. Costume, oggetti e via. So bene che se dovessero scritturare qualcuna per il ruolo di Anita in un film andrebbero a cercare la somiglianza e va bene così, ma molti attori hanno avuto la possibilità anche di trasformarsi per un ruolo.
Nel mio caso è stata una trasformazione interiore che mi ha permesso di tirare fuori quella grinta e forza che magari da una fisicità più esile non ci si aspetterebbe”.
Dal punto di vista tecnico, ci sono accorgimenti particolari per prepararsi ad un monologo, che so sulla respirazione, sul gioco di luci, sul trucco in scena, rispetto ad un’opera corale?
“Assolutamente sì. Cambia anche l’attenzione del pubblico.
Nel caso del monologo, l’attenzione è sempre canalizzata sul singolo e non è facile mantenerla per lungo tempo. Anche un bel testo (ed è il caso di quello di Valeria Magrini) se non ha le giuste pause, uno studio dei movimenti nello spazio scenico, un piano luci, rischia di annoiare.
E per questi aspetti registici, sulla preparazione in generale, devo ringraziare il mio Maestro Emanuele Montagna che mi ha accompagnata passo dopo passo nella preparazione dello spettacolo. Voce inclusa. Perché i momenti più intimi si alternano a quelli più evocativi anche tramite i volumi”.
Quale deve essere la durata ideale di un monologo (intendo un monologo che esaurisce l’intera durata dell’opera portata in scena, come L’Attesa)? Ci sono monologhi che hanno durate diverse oppure ci sono tempi standard?
“Non so se esista una risposta unica, probabilmente no. Posso dire che non credo ci sia una durata standard perché un monologo sia efficace (sebbene quando andiamo a teatro siamo abituati a certi tempi comuni di molti spettacoli entro i quali si svolge l’opera).
Perché un monologo arrivi dritto al pubblico e si esaurisca in modo ottimale credo valga quanto ho espresso sopra. Una buona scrittura innanzitutto. E certamente tenere alta l’attenzione del pubblico.
L’Attesa è sotto l’ora (45 minuti lo spettacolo intero) e fu anche ampliato rispetto alla versione iniziale proprio per portarlo in scena (e mi piacerebbe poter arrivare anche ad un’ora! Chissà, magari con una futura stesura). In alcuni teatri monologhi così brevi non vengono considerati perché il pubblico pagante vuole venire a teatro per rimanere più a lungo (soprattutto per chi si muove da lontano, ed è comprensibile), ma non è la regola. Anzi.
Un esempio per me è stato assistere a tutti i monologhi degli altri concorrenti al Premio. Ognuno ha catalizzato l’attenzione del pubblico in maniera differente col vantaggio che, sapendo che i testi sarebbero stati brevi (6 minuti al massimo), ci si è concentrati ancora di più sull’attore per capire la storia che stava raccontando. Quindi si, anche la brevità può essere vincente. Insomma, non c’è una regola, credo. Lo scoprirò con il tempo”.
Si tratta del primo monologo che porti in scena come protagonista? In quali altri monologhi hai recitato e in che cosa quello di Anita secondo te ha una marcia in più?
“È stato il primo, sì. Almeno, il primo così lungo e intenso, da sola sul palco.
Avevo già interpretato alcuni ruoli che all’interno dell’opera avevano dei monologhi (Le Otto Donne, monologo finale di Catherine) e altri che ho estrapolato per dei provini (La ragazza sul Ponte, Oleanna, alcuni monologhi di Gloria Calderòn Kellett ecc.) ma certamente questa di Anita è stata la più totalizzante delle imprese che io abbia sperimentato fino ad ora perché mi ha permesso di gestire la presenza in scena dall’inizio alla fine”.
Hester di Una donna senza importanza di Oscar Wilde, Le Beatrici di Stefano Benni e Valerie di V per Vendetta di Lana e Lilly Wachowski.
Quale monologo sceglieresti e perché o se ce ne sono altri che ti piacciono in modo particolare
“Non è facile rispondere a questa domanda. I tre che hai citato hanno ciascuno una loro forza, diversa dalle altre. Ma la volontà del cambiamento di prospettiva e del cambiamento sociale li accomuna.
Sicuramente le voci che si raccontano e portano alla riflessione, alla maturazione di un ideale o che motivano l’ascoltatore e l’interprete stesso ad agire per fare qualcosa mi affascinano molto.
Nel tempo mi sono segnata diversi monologhi che mi hanno colpita, a volte anche estrapolati da alcune serie tv scritte molto bene con personaggi femminili e/o maschili con una bellissima evoluzione.
Se penso al Teatro però, non posso non citare Nina de Il Gabbiano di Cechov. La mia parte preferita è quando riflette sull’amore per la vocazione attoriale e sulla sua vita e dice:
Adesso io so, io capisco, Kostja, che nel nostro lavoro – poco importa se recitiamo o scriviamo – l’essenziale non è la gloria, non è il lustro, non è ciò che sognavo, ma la capacità di soffrire. Sappi portar la tua croce e abbi fede. Io ho fede, e questo mi allevia il dolore, e quando penso alla mia vocazione, non ho paura della vita”.
Photocredit Gino Rosa